lunedì 7 dicembre 2009


E lo so che non vi può importare più di tanto, ma io ci sono stata male, per Paul Newman. Era uno dei miei amori, quando il mondo si divideva ancora in paulnewmaniste e robertredfordiste: loro due già erano in là con gli anni, ma i loro film erano – come sono – giovanissimi.

Non so voi, ma l’adolescenza mi si è chiarita di parecchio, quando ho visto La lunga estate calda: ho scoperto che c’era un incendiario sotto la pelle che scottava senza preavviso né significato ma misteriosa connessione, c’entravano gli occhi azzurri, il muso spaccone ma incongruamente indifeso di Paul nel cui broncio naturale s’annidava un’imprecisata fragilità.

Non posso dire che lo amavo: piuttosto, lo subivo interamente, come si fa col peso d’un immaginario soverchiante. E come soverchiava, lui: quando s’inseguiva per le stanze, in quella danza di desiderio trattenuto, d’una frustrazione che non capivo ma riconoscevo, con la gatta Liz che scottava.

Insomma, io non credo che sia morto.
E ne approfitto per fare un bilancio, di vivi e morti.

Sono indiscutibilmente vivi:

Marlon Brando: lo posso sentire distintamente sul terrazzo, mentre dà da mangiare ai piccioni di Fronte del porto. Il cuoio del suo berretto fa un odore riconoscibile, e il subbuglio che mette. E’ della stessa famiglia di Paul, sono fratelli di schermo, di feromone, di cose non dette e raccolte in un punto imprecisabile tra le labbra e le sopracciglia, per esempio.

Einstein: lo si incontra dappertutto. Sono quasi certa che sia lui, con una paglietta sfondata e un bastone da passeggio, sul lungomare di Reggio Calabria, a contare le specie di insetti ignoti nei buchi delle piante millenarie.

Cary Grant: lui sta per lo più seduto al volante di una decappottabile, senza un capello fuori posto e la cravatta sulla spalla in compagnia di qualche bionda col foulard in testa. Se gli chiedi perché sta sempre lì a perdere tempo ti risponde che sta lavorando. Il suo lavoro è credere nei miracoli.

Che Guevara: a volte mi chiede se ho da accendere, e io devo rubare l’accendigas dal cassetto della cucina, e ricordargli che non si fuma in casa. Lui se ne frega, e continua a leggere Goethe a piedi nudi, con un sibilo impercettibile nei polmoni. O forse è il foro della pallottola, nel petto. Hai la maglia bucata, gli dico. Sapessi il cuore, mi risponde invariabilmente.

Totò: è una specie di zio, da sempre. Hai aperto la parente? Mi chiede qualche volta. Sì, zio Totò. E chiudila allora, mi fa dall'altra stanza. Io sorrido, e chiudo lo sportello della zia.

Leonardo: sta costruendo un’Arca molto laboriosa, che riassume tutte le sue macchine da guerra e da bellezza, con una polena Monna Lisa che gli consentirà di solcare i cieli, e molte biciclette stellari che ci consentiranno di girare attorno alle costellazioni, e prenderne nota per i suoi disegni a china.

Astor Piazzolla: suona i suoi tanghi ogni sera, spostando appena la rosa rossa posata sul pianoforte. La yumba rompe i muri della dittatura, piano piano, in quattro quarti.

Mia nonna Zara: dà ordini come se avesse ancora ottant’anni, e una famiglia mezza umana e mezza no a sua completa disposizione. Legge il futuro, e, cosa più sorprendente, il passato. Non il suo, ovviamente.

Sandra Dee: ha sempre una media di sedici anni, e ci rammenta che il mondo ha, costantemente, sedici anni, vaniglia e legno verde.

Jane Austen: è un punto di riferimento per noi ragazze. Basta sollevare il telefono e chiamarla: conosce tutto degli uomini e delle donne. Quindi non ci sorprende che continui a non maritarsi. “Figuriamoci - dice lei - devo ancora finire il capitolo".

Pablo Neruda: se, poniamo il caso, ti serve una parola, lui ce l’ha. Una parola banale come “cesta”, “ciliegio”, “gatto”: cercala, e poi vedi cos’è capace di farci, lui. Passa il suo tempo in un terrazzo invaso da rose carnivore, polene sospirose e sale oceanico, ma non ti dirà mai che non ha tempo per te o la tua collezione di domande.

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